The Last of us
The Last of us

ART REVIEW BY

PROF. ALBERTO GIORGIO CASSANI

Le Metamorfosi ovidiane sono storie di uomini e donne che, nell’attimo i cui la loro vita sembra concludersi, in modo sempre violento a causa, in genere, di vendette e gelosie degli dèi, proseguono la loro esistenza in nuove forme, grazie alla pietas di altre divinità. Sono forme in mutamento. La scommessa, ardua ma vinta dal poeta di Sulmona, è stata quella di creare, con gli strumenti della poesia, forme plastiche viventi, aggiungendovi in più la difficoltà di descrivere, appunto, forme in mutamento. Solo il cinema, con l’eccezione dello straordinario virtuosismo dell’Apollo e Dafne del Bernini, sembra esserne capace, proprio perché riesce a riprodurre l’immagine in movimento. Ma come può farlo la parola (o la pittura)? Ovidio vi riesce magistralmente disaggregando la trasformazione dei corpi in elementi tra loro in sequenza. Era stato il linguista russo Jurij Konstandinovič Ščeglov, in un fondamentale saggio di analisi strutturale del 1962 (Alcuni lineamenti di struttura nelle «Metamorfosi» di Ovidio, in traduzione italiana) a comprendere per la prima volta questo stratagemma ovidiano: «Il merito dell’autore delle Metamorfosi sta nel fatto di costringere a vedere e a percepire un processo così complicato e “inimmaginabile” scomponendolo
in trasformazioni più semplici, conciliabili con l’immaginazione umana». Prendo a prestito le parole di Emilio Pianezzola (Il mito e le sue forme: l’eredità delle «Metamorfosi» nella cultura occidentale), che ha ben riassunto il metodo di Ovidio svelato da Ščeglov: «Nell’impostare una
metamorfosi Ovidio individua anzitutto il diverso, gli elementi di opposizione tra l’oggetto A e l’oggetto B» – ad esempio Dafne e l’albero di alloro – «quindi cerca gli elementi di analogia su cui operare i passaggi metamorfici capaci d’annullare la diversità». Eccone i versi latini (I, vv. 548-
552): «Vix prece finita, torpor gravis occupat artus, / mollia cingunturtenui præcordia libro, / in frondem crines, in ramos bracchia crescunt; / pes modo tam velox pigris radicibus hæret, / ora cacumen obit: remanet nitor unus in illa» (ed qui la bella traduzione italiana di Mario Ramous: «Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, / il petto morbido si fascia di fibre sottili, / i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, / il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva».
Dunque, la parola può rappresentare il tempo. E la pittura? La famosa querelle cinquecentesca sulla superiorità tra scultura e pittura nel descrivere il trascorrere del tempo ebbe come provvisoria conclusione il famoso dipinto del 1552 del Bronzino che raffigura il nano Morgante, in cui, sui due lati della stessa tela, il pittore dipinse, sul recto, il protagonista in procinto di partire per la caccia e, sul verso, il suo ritorno, tenendo in mano le prede della sua impresa. La caccia, appunto. Cosa sono le Metamorfosi ovidiane se non scene di caccia? Cacce tragiche: Apollo che cerca di possedere Dafne, Diana, la cacciatrice per antonomasia, che fa sbranare l’incolpevole Atteone, trasformandolo in cervo, dai suoi fidati cani, Cefalo che uccide, involontariamente, l’amata Procri, proprio durante una battuta di caccia.
Osservando il ciclo d’incisioni a fuoco di Paola Moro, dal titolo Huntingmetamorphoses, realizzate sulle tavole di un cedro secolare del parco di Villa Breda a Ponte di Brenta, morto e poi tagliato in lastre, si vede che le bruciature hanno fatto uscire di nuovo la resina, il “sangue” che circolava nel legno. Anche qui una rinascita, una metamorfosi. Se la selvaggina, preda della caccia, raffigurata sulle tavole con uno stile che, rimandando al surrealismo e alla metafisica, utilizza però tecniche
grafiche digitali, non avrà la chance di un’altra possibilità di vita, come nella fabulæ ovidiane, è un’epoca senza dii ex machina, la nostra, è proprio la materia, il legno del cedro centenario che continua a vivere come opera d’arte.
Come sosteneva, appunto, un artista surrealista, Joan Miró: «Bisogna avere massimo rispetto per la materia. È lei il punto di partenza. È lei che detta l’opera, lei che la impone» (La fuerza de la materia).

«Fer, pater,» inquit «opem! Si flumina numen habetis,
qua nimium placui, mutando perde figuram!»
Vix prece finita torpor gravis occupat artus,
mollia cinguntur tenui praecordia libro,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt,
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus
conplexusque suis ramos ut membra lacertis
oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum.
Cui deus «at, quoniam coniunx mea non potes esse,
arbor eris certe» dixit «mea! Semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae».

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«Oh Terra, spalancati oppure distruggi con una metamorfosi
la mia bella figura che è causa del mio danno!
Padre, dammi aiuto, se voi fiumi avete potere divino!
Cancella trasformandolo il bel sembiante per cui piacqui tanto!».
Appena finita la preghiera, un pesante torpore invade il suo corpo.
Il petto delicato viene avvolto da una sottile corteccia,
i capelli si mutano in foglie, le braccia in rami,
i piedi, poco prima così veloci, si fissano in radici immobili,
il volto in una cima d’albero: le rimane soltanto la bellezza di un tempo.
Pur così Febo l’ama e, poggiando la mano sul tronco,
sente ancora il petto battere sotto la fresca corteccia.
Allora, intrecciando le sue braccia ai rami come se fossero le membra di lei,
bacia il legno: ma il legno rifiuta i baci.
A lei il dio: «Poiché non puoi essere la mia sposa, disse, sarai di certo il mio albero.
La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra, o alloro, si orneranno di te.